Progetto realizzato con il contributo della Provincia di Como

Luigi Franconi, Il nuovo cuoco ticinese economico 

Lugano presso Fratelli Fioratti Tipografi-Librai, 1846.

IL TESTO
"Pigliate un pezzo pancetta di maiale salata, una mezza lingua salata cotta, un pezzo di giambone magro, un pezzo di slonza di maiale, un'orecchia di animale sbianchita, ogni genere deve essere di quantità eguale; tutto questo lo taglierete a piccoli dadi di eguale dimensione, pesterete fino il terzo di detto composto, uniteli pure dei tartufi tagliati a piccoli quadretti, mettete il tutto in una casseruola, uniteli l'adatto sale, droghe fine, un bicchiere di rhum, un bicchiere di vino di Cipro e due once pistacchi, impastate il tutto insieme, disossate un capone levandoli la pelle unitamente alla polpa, empite con detto salsone il capone, cucite bene l'apertura con reffe, involgetela in una salvietta, legatela stretta con spago, indi cuocetela nel seguente modo: coprite il fondo d'una casserola con lardo, cipolle e erbe odorifere, formateli un suolo di gambe di vitello tagliate a piccoli pezzi, poneteli sopra detta galantina, empite in giro la casserola di altre gambe di vitello e ossi di pollo minutamente tagliati, ponete la casserola sopra il fornello a gratinare per un momento, indi bagnatela con un bicchiere di vino bianco; poscia con acqua, a parallelo della galantina e degli ossi, mettete il bisognevole sale, cannella in cana e fatela bollire per due ore. Levatela poscia dal fuoco, lasciatela raffreddare, levate la galantina, passate al staccio la gelatina, sgrassatela, provatela che sia giusta di sale indi clarificatela con chiari d'uova e sugo di limone; passatela con un panno, ponetela al ghiaccio a gelare indi servitevi per guarnire la galantina" [logicamente, dopo che sia raffreddata e sia stata tagliata a fette].

IL COMMENTO
Il termine galantina è di probabile origine francese (deriverebbe da galantine, gelatina) e indica una pietanza di pollame – cappone, tacchino o gallina – disossato e farcito, servito in bellavista ricoperto della sua stessa gelatina. Anche per il piatto (presente già del Cuoco senza pretese dell'Odescalchi (1826) si può ipotizzare un'origine franco-piemontese in derivazione dalla Cuisinière di Menon (1746). Trattandosi di una preparazione ricca (nella ricetta del Franconi nobilitata anche dalla presenza del tartufo per il ripieno) non era piatto quotidiano né popolare. Si preparava nelle ricorrenze, a Natale con il cappone tradizionale, per la Pentecoste, con la gallina quando, nel maggio inoltrato, era possibile stabilire se la bestia aveva ripreso o meno a fare le uova. In ambiente borghese il vino di Cipro era comunemente sostituito con il Marsala, tra la gente delle campagne con vino bianco. La galantina classica, ancora molto apprezzata su tutto il territorio lariano, prevede che il volatile ripieno sia bollito, ma si trovano documentate anche versioni in cui è stufato con una cottura prolungata e poi guarnito di gelatina preparata a parte.

 (Angelo Dubini), La cucina degli stomachi deboli

Milano, Giuseppe Bernardoni, 1862.

IL TESTO

Ingredienti: Sangue di pollo, latte, uova, sale, spezie, zuccaro, mandorle amare, pane e formaggio, cipolla, butirro.

Stempera in due bicchieri di latte il sangue di due o tre polli, passalo per lo staccio, rimestavi dentro due uova intere, una presa di sale e di spezie, un pizzico di zuccaro, una dozzina di mandorle amare decorticate e pestate, oppure due amaretti, un buon pugno di pane grattugiato, un po’ di formaggio trito. Ciò fatto, metti ad abbrustolire una cipolletta con un pezzo di butirro, e preso che abbia color d’oro, getta via la cipolla, unisci al butirro il composto, incorporalo bene, poi versalo in una tegghia o tortiera unta e panata, e lascialo cuocere lento con fuoco sotto e sopra.

IL COMMENTO

Nel mondo della tradizione niente di quanto era offerto dalla natura poteva essere sprecato, tutto doveva essere utilizzato in qualche modo. La macellazione del maiale, un vero e proprio rito della civiltà contadina, prendeva avvio dalla raccolta del suo sangue, attraverso un colpo preciso inferto al cuore della bestia con un apposito strumento – un punteruolo o un grosso ago con l’impugnatura. Col sangue si preparavano diverse pietanze ma soprattutto i sanguinacci, una sorta di salsicce che potevano essere conservate anche una settimana o due durante l’inverno. Altrimenti si facevano delle frittatine, friggendo un impasto di sangue, farina e latte in una padella con il lardo. E ancora delle torte, in tutto simili ai castagnacci, da cuocere in forno o sul camino con la brace sopra e sotto. Queste preparazioni, trasferite nella cultura urbana o suburbana, si erano spostate sui polli e sui colombi. Così, quando si arrivava a tirare il collo alle galline, ai galletti, ai capponi e ai tubanti ospiti della piccionaia, non si perdeva l’occasione per raccogliere il sangue degli animali e, data la quantità molto inferiore rispetto a quella di un maiale, si trasformava in frittate e in torte. Non sgomenti, dunque, che il Dubini presenti la ricetta del tortino di sangue nel suo ricettario, indirizzato alle cuoche delle famiglie borghesi: non fa nient’altro che testimoniare un uso corrente. Né imbarazzi, poi, che la ricetta sia presentata in un ricettario intitolato “agli stomachi deboli”: anche in questo caso, l’autore si conforma alla dietologia dell’epoca che riteneva più salutari e digeribili quegli alimenti che più si avvicinavano, nella loro struttura, ai tessuti del corpo umano. La presenza di zucchero e di amaretti ci rimanda all’origine medievale della tradizione gastronomica del sangue, quando queste preparazioni erano considerate dei veri e propri dolci, come avviene ancora oggi per i diversi tipi di sanguinaccio (liquido o coagulato) diffusi soprattutto nel Meridione d’Italia.

PANE DI FEGATO
da Luigi Franconi,
Il nuovo cuoco ticinese economico, Lugano 1846

 

Il testo
“Pestate bene un pezzo di fegato di maiale con qualche fegatino di pollo e fateli passare allo staccio, uniteli due rossi d’uova, un mostaccino ridotto in polvere, mezzo bicchiere di vino Malaga, sale, noce moscata, mescolate il tutto assieme; untate un timballo con butirro, versatele dentro questo composto e fatelo cuocere a bagnomaria”.
(Tagliate il fegato di maiale a fettine e fatelo saltare rapidamente in un goccio d’olio assieme ai fegatini di pollo. Poi tritateli molto sottili e passateli al setaccio (oggi si può usare il frullatore). Polverizzate un mostacciolo (biscotto secco legato con mosto cotto, oggi sostituibile con un biscotto secco con cannella e chiodo di garofano) e unitelo al fegato con due rossi d’uovo, mezzo bicchiere di Marsala, sale e noce moscata, mischiando tutto accuratamente. Ungete uno stampo rettangolare dalle pareti lisce, versateci dentro il composto e fatelo cuocere per circa un ora a bagnomaria. Può essere decorato con gelatina sopra e sotto)

Il commento
Il nuovo cuoco ticinese economico del Franconi è forse il primo dei ricettari ottocenteschi (l’ultimo, tra i maggiori, sarà quello di Pellegrino Artusi, 1892) a riportare, con leggerissime variante nell’aromatizzazione tra l’uno e l’altro, la ricetta del pan di fegato. Il termine “pan” non ha alcuna attinenza con il pane di frumento, piuttosto con la forma della pietanza in questione, così come si dice “pane” o “panetto” di burro o di qualsiasi altra sostanza alimentare o meno che abbia una forma di parallelepipedo. In questo caso si tratta di uno dei molti antenati rustici del paté di fegato, in cui la sostanza legante non è data dal burro, ma dalle uova e dalla polvere di biscotto cotte lentamente a bagnomaria. La borghesia lombarda dell’800, attenta al decoro ma anche al risparmio, ne apprezzava giustamente la sostanza e la tranquilla compostezza. La sostituzione del fegato di maiale con quello di vitello e la cospicua aggiunta di burro nelle elaborazioni di cucina internazionale nel corso del XIX secolo hanno sicuramente reso il paté più omogeneo, ma anche più generico, più delicato (se fatto ad arte) ma meno gustoso e ricco di evocazioni.

COTELETTE BRACIUOLATE
da Antonio Odescalchi, Il cuoco senza pretese
ossia la cucina facile ed economica 
(1826)

IL TESTO
"Pigliansi costaiole di vitello, castrato o porco, si preparino, e si battino bene, poi fatto dileguare nella tortiera del butiro con un poco d'olio unito, al momento che incomincerà a friggere immergetevi le vostre cotelette impannate; e cotte servitele naturali, o con qualche salsa”. 

IL COMMENTO
Se non facciamo troppo caso al nome delle ricette e se ne considerano le procedure di preparazione che esse descrivono e la tipologia della pietanza che se ne ricava, non sarà difficile accorgersi che le cotolette braciuolate dell’Odescalchi non sono se non una delle prime (se non la prima formalizzazione in assoluto) della ricetta di quelle che poi sono state conosciute ovunque con il nome di cotolette alla milanese.
Si deve a Felice Cunsolo (La cucina lombarda, Milano, Novedit, 1963, p. 117) la comunicazione della fortuita scoperta fatta da studiosi austriaci con la quale si risolveva un’annosa questione, riconoscendo che il Wiener Schnitzel non è padre ma figlio della "cotoletta alla milanese", come attesta un documento redatto dal conte Attems, aiutante di campo di Francesco Giuseppe, conservato all’Archivio di Stato di Vienna. Al Cunsolo era tuttavia sfuggito che prima del quinto decennio del XIX secolo, quando fu redatta la relazione di Attems, la ricetta della cotoletta impanata era già stata pubblicata nel ricettario anonimo del nobile comasco Antonio Odescalchi.
Si potrà obiettare che questa ricetta fa riferimento, indifferentemente, a “costaiole [cotolette] di vitello, castrato o porco” e non alle sole cotolette di vitello, che costituiscono la materia prima delle “milanesi”. E’ vero. Bisogna però considerare che all’epoca, i vari tipi di carne (vitello, castrato o porco) erano comunemente considerati tra loro intercambiabili, soprattutto nella cucina popolare o piccolo borghese, dal momento che l’abitudine era di cucinare con il tipo di carne o di verdura disponibile. Tale consuetudine è segnalata anche in altri ricettari, come La cucina degli stomachideboli del Dubini (Milano, Bernardoni, 1862), alla ricetta n° 61,Costolette di porco, panate, alla gratella, dove le cotolette, dopo essere state condite, sono bagnate nel burro fuso, passate nella mollica di pane grattugiato, poi nell'uovo sbattuto e nuovamente nel pane grattugiato, per essere infine "fritte sulla gratella". Nel NB finale, l’autore aggiunge: "In tal maniera si ammanniscono anche le costolette di vitello e di pollo". Si può ragionevolmente concludere che la limitazione al solo vitello per la cotoletta milanese sia stato un po’ alla volta formalizzato nel corso del XIX secolo, quando la carne bovina andò progressivamente sostituendo, nella cucina borghese, tutti gli altri tipi di carne, ritenuti più adatti alla cucina popolare.

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