Dal pane con la frutta al panettone natalizio
Rossano Nistri
Nella tradizione del territorio lombardo compreso tra le Prealpi e il Po non c'era pranzo di Natale senza panettone (mil. panatùn = pane grande). Questo dolce è divenuto sicuramente, nel corso del XX secolo, un vero e proprio mito contemporaneo, nel senso che a questo termine attribuiva Roland Barthes nei suoi famosissimi saggi brevi degli anni Sessanta del secolo scorso.
La diffusione extraregionale e la miriade di varianti di cui il panettone è stato oggetto nella seconda metà del Novecento sono il segno concreto della persistenza, nella nostra cultura cosiddetta postmoderna, di quell'Isola Senza Tempo delimitata ab antiquo nel calendario agricolo dalle due settimane comprese tra il solstizio d'inverno e il novilunio di gennaio, e, nel calendario cristiano, tra il Natale e l'Epifania.
Come ogni mito che si rispetti, il panettone (la cui culla d'origine, tradizionalmente attribuita a Milano è però contesa, a buon diritto, da alcune altre città lombarde della fascia prealpina - Varese, Como e Bergamo tra queste) ha alimentato – è il caso di dire - una sorta di leggenda di fondazione che ne colloca l'origine nella Milano del XV secolo, al tempo di Lodovico il Moro. Vuole, questa leggenda, che un Ughetto della Tela, garzone del prestinee vicino a Santa Maria delle Grazie, nel tempo in cui Leonardo stava affrescando il Cenacolo, s'invaghisse perdutamente della bella Adalgisa, figlia del suo padrone. Per conquistare la stima del fornaio e ottenere da lui il consenso a sposarne la figlia, Ughetto, ingegnoso e intraprendente come tutti i garzoni da favola e da leggenda, pensa ora, pensa poi, avrebbe elaborato il nostro dolce natalizio, aggiungendo scorza d'arancia candita e uvetta sultanina alla normale pasta del pane.
Anche a un orecchio poco addestrato non sfugge il suono fasullo di questa piccola narrazione, troppo simile a tante altre di contenuto culinario. Non un frammento più o meno ampio di una grande narrazione, ma una storiella, rispondente a finalità moralistiche assolutamente incompatibili con le leggende autentiche, quelle di cui si afferma che sono (antropologicamente) vere, in quanto deposito di verità non altrimenti esprimibili. Come tante altre, la leggenda nasce in ordine alla strategia maturata nella Chiesa dopo la Controriforma e tesa a debellare le resistenze cultuali dell'antica religione agraria, ancora molto sensibili nelle campagne dopo il XVII secolo, attraverso i due opposti strumenti della repressione e dell'assorbimento sincretistico. Quest'ultimo contemplava appunto la tacita acquisizione delle reliquie del paganesimo nel corpo della nuova religione e la loro rifunzionalizzazione mirata al rafforzamento della cultura cattolica. Il panettone, infatti, ha origini molto antiche, tanto lontane da superare, a ritroso, la diffusione e la stessa nascita del Cristianesimo.
Uno dei meccanismi che rendono efficace, operante e comprensibile, il linguaggio alimentare è, come sappiamo, quello dell'associazione, cioè il legame ordinario, preferenziale o esclusivo, di due o più materie prime o di alimenti semplici, all'interno di una formulazione o di un modello alimentare. Alcune associazioni possono essere considerate, senza ombra di dubbio, archetipiche, poiché provengono dai modelli alimentari più antichi elaborati dall'uomo e sono comuni ad aree geografiche e culturali spesso molto vaste.
L'alimento semplice ottenuto impastando con acqua un qualsiasi sfarinato di cereali, e cuocendolo secondo le due tecniche della bollitura (pult e farinata) o della cottura al forno (pane, in tutte le sue forme e pezzature, con o senza lievitazione) è uno dei più antichi realizzati in ambito indoeuropeo: è stato, e continua ad essere, uno degli elementi indispensabili per alcune delle associazioni alimentari archetipiche più apprezzate.
Pane e..., pult (---> polenta) e..., pasta e...: il pane, la polenta e la pasta si accompagnano a qualsiasi altro alimento, nel senso che tutto può essere companatico. Il pane arricchito nel suo impasto con verdure, con frutta fresca o secca, con carni o con pesce, è tradizionalmente presente in tutta l'area mediterranea, sia nelle versioni salate che in quelle dolcificate. La dolcificazione della pasta del pane si otteneva, fino al secolo scorso, con il miele o, più raramente con lo zucchero, nella cucina borghese e di corte; con il mosto cotto e con la frutta fresca o secca (mele, pere, uva, fichi, prugne, noci, nocciole, mandorle, pinoli) nella cucina popolare.
Dolci con frutta e/o miele sono documentati sul territorio italico da almeno duemila anni, dai pòpana e dagli janualia delle feste solstiziali latine ai dulcia domestica del ricettario attribuito ad Apicio (III-IV sec.), dai pani speziali ai panpepati medioevali (di cui sono eredità evidente il panforte senese, la spongata emiliana, il pandolce genovese). Anche il panettone, il pane grande cui negli ultimi decenni del '700 accennava, quale tradizione popolare nel giorno di Natale, lo scrittore milanese Pietro Verri, sostituito il miele con lo zucchero, rientra nella stessa linea evolutiva e negli stessi ambiti antropologici dei pan speziali, cioè nella dimensione dell'offerta solstiziale del pane solare.
La presenza, nella ricetta classica del panettone, di un ingrediente tutto sommato estraneo al panorama gastronomico padano, come la buccia candita di arancia o di cedro, contribuisce in qualche modo a delimitare l'epoca di origine di questo simbolo natalizio allo scorcio del Medioevo e agli ambiti di quella gastronomia di corte dell'epoca tardogotica, che ebbe diffusione un po' ovunque e che maturò caratteri simili in gran parte dell'Europa. E dalla Spagna, dove era stata introdotta dagli Arabi era arrivata nella cucina dell'epoca gotica la passione per le bucce candite del cedro o dell'arancia, la naranjada, ancora oggi prelibatezza tradizionale tanto nella Penisola Iberica quanto in Sicilia (aranciata).
Se l'origine lontana di questa specialità dolciaria è medioevale, la doppia o tripla lievitazione connota il panettone, quale noi lo conosciamo, come un prodotto non solo di forno, ma di vera e propria pasticceria. Solo abili pasticceri, infatti, partendo dall'aspetto tozzo e dalla pasta compatta – due caratteristiche che presumibilmente si confacevano al pane grande del Medioevo - hanno potuto legarlo, nel corso dei secoli, ma soprattutto nell'800, a quella leggerezza che gli permette di enfatizzare la tipica forma a cupola (o meglio: a fungo) che ci è familiare.
Andando a ricercarne i modelli nella cucina popolare, è facile trovare al panettone una bella serie di antenati, un po' ovunque in Lombardia, soprattutto nel territorio prealpino nelle Valli e attorno ai grandi laghi; tutti antenati rustici, ma non zotici, bertoldeschi, di bassa corporatura, piatti, tozzi, compatti e poco lievitati, ma saporiti e intelligenti. Si ritrova la tipologia del panettone nella miascia (torta di pane secco con mele, pere e uva fresca e/o sultanina), nel pan striaa e nella brusada dei paesi della Brianza, nella chisciola del lecchese, nella resta comasca, nel comune pan tramvaj dell'operaio milanese o nella bisciola di derivazione chiavennasca e valtellinese: tutte preparazioni dolciarie di schietta razza popolare, accomunate da un unico elemento: l'associazione della pasta di pane alla frutta fresca e/o secca e candita, con o senza aggiunta di zucchero o di uova.
Ma c'è qualcosa di ancora più archetipico, nella forma e nella sostanza, se è mai possibile, del pan tramvaj, ed è il pan cunt l'uga nella sua versione più essenziale che nell'Alto Lario chiamano ul braschin (da brasca = brace, perché una volta veniva cotto direttamente sui carboni del camino ricoperti di cenere). Nient'altro che pasta di pane mischiata con un pugnetto di uvette ammollate e strizzate. La pasta, spianata con le mani nella teglia unta, si spolvera di zucchero e poi si inforna. Il dolce dei poveri, ancora usato in funzione di eucaristia laica nelle sagre di paese a Nord della Tremezzina, dove la cultura millenaria della gente del lago si mischia con quella degli alpini e l'una e l'altra si sintetizzano in una visione cristiana, semplice e ingenua, che è soprattutto attaccamento alla tradizione.
Appena più a Sud, sull'altra sponda del Lario, a Varenna, la fitasceta, una specialità povera lariana che può essere considerata un classico della cucina regionale, da quando Anna Gosetti della Salda l'ha inserita tra gli antipasti lombardi del suo best-seller gastronomico sulle ricette regionali, induce una riflessione non peregrina sulle sottili reti associative che danno forma a un modello alimentare. La fitasceta è diversa dal braschin solo in quanto utilizza cipolle anziché uva; poi stessa pasta di pane, stesso olio, stesso zucchero. Sì, zucchero e cipolle, un'associazione di cui nella tradizione lombarda (come in quella di altre regioni d'Italia) c'è più di un esempio. Quello che la Gosetti presenta come antipasto, un tempo era, credibilmente, piatto unico (così come doveva esserlo il braschin, oggi assimilato dalla nostra cultura opulenta alla tipologia dei dolci e quindi ai dessert, alle colazioni, agli spuntini e alle merende).
Il dolce in quanto tale, nella dieta della società tradizionale, era destinato - quasi generalmente - alle occasioni alimentari festive e aveva sempre una sua specificità rituale. Se il cibo di gusto dolce poteva talvolta comparire sulla tavola rustica, era assimilato agli altri piatti unici e doveva perciò essere il più completo possibile sotto il profilo nutrizionale, all'interno di una selezione culturale degli alimenti, prodottasi nel corso dei secoli.
Da questo punto di vista, il capolavoro di adattamento e di completezza nutrizionale era fornito da un pane con frutta, nella tipologia della brusada, segnalato come ancora in auge negli anni '70 del XX secolo in Brianza: pasta di pane con frutta, ciccioli di lardo di maiale (gratun) e cipolle.
Diventa un gioco ozioso, a questo punto, tentare di andare oltre nello zelo della ricostruzione filologica e nell'elencazione puntigliosa delle varianti e conviene accontentarsi di alcuni punti fermi. L'archetipo associativo della formulazione alimentare conosciuta come panettone (pane e frutta) data nella cultura europea dall'epoca protostorica; la speziatura (canditi e aromi) al tardo Medioevo in buona parte dell'Europa; la lievitazione multipla si elabora nella cultura franco-padana tra lo scorcio del Settecento e l'inizio dell'Ottocento. Il resto l'ha fatto l'industria dell'area milanese nel secolo appena terminato.